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Le bombe fanno DUNN

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Le bombe fanno DUNN

Devo scrivere un diario. La mamma dice che mi farebbe bene, ma io penso che sia un’idea del dottore. Il dottore mi fa paura, a volte credo che sia lui mio padre, però non somiglia per niente alla foto (segreta) che mia madre tiene in borsa, quindi non è lui. Io, in teoria, un papà non ce l’ho e mi sta bene così. Non ho nessuna voglio di tenere un diario ma con la mamma non si discute quando si è messa in testa un’idea. “Ci  scrivi i tuoi pensieri e nessuno lo leggerà mai se non tu”, dice; come pensa che io abbia voglia di leggere cose che io stesso ho scritto e che quindi già conosco, non si sa. Poi dicono che sono io l’handicappato. Il mio libro preferito, in realtà l’unico che leggo con vero piacere, è il vocabolario; e questa è già una cosa strana sul mio conto. Non so se scriverò ancora altri pensieri su questo quaderno, se me ne verranno in mente bene, se no, no.
Un altro pensiero che posso scrivere, e penso sia importante in un diario ben tenuto, è che il mio nome è Alessandro. Il cognome non lo scrivo per non essere identificato.
Le bome fanno DUNN: loro le sganciano dall’alto senza criterio e le bombe fanno DUNN. “DUNN” vuol dire che c’è qualcuno che muore.
Quando sono nato ero davvero piccolo, avevo meno di tre anni (questa è una battuta) e non facevo che piangere. Avrò avuto le mie buone ragioni, dico.
Una volta che la mamma era in vena di confidenze, mi raccontò che ero nato prematuro e pesavo pochissimo, come una coscia di pollo, allora io avevo chiesto quanti anni avevo quando ero nato e la mamma si era messa a ridere e poi aveva detto: meno di tre anni. A me era sembrata una spiegazione esaustiva (esaustivo: agg. Che tende a raggiungere la completezza su un argomento) invece era una battuta. L’età all’inizio si misura in giorni, poi in mesi e poi in anni. Questa è una cosa che adesso so. Con una mamma che ti fa scherzi non è facile venirne a capo in questo ginepraio (ginepraio: sm. Macchia di ginepri fitta, intricata. Quindi in senso fig. situazione intricata, confusa, difficile da sbrogliare). In pratica alla mia nascita c’erano stati dei problemi, di conseguenza una parte del mio cervello è atrofico (atrofico: agg. Che presenta atrofia. Atrofia: sf. In med. Degenerazione di un organo ecc.), per cui non ho la cognizione del tempo ed altre piccole conseguenze come, per esempio non saper distinguere tra ciò che giusto e ciò che non lo è.
Adesso me la cavo bene e la mamma dice che quando lei morrà (a centodieci anni, ci tiene a precisare) io saprò sbrigarmela da solo. Non vedo l’ora che muoia così potrò sbrigarmela da solo.
Quand’ero piccolo avevo degli amici.
Ci sono cose facili e cose difficili, io mi dedico a quelle facili.
Insieme all’insegnante di sostegno lasciamo la classe e ci ritiriamo in un’auletta dove ci sono tre computer e tanti libri. A volte c’è un’altra ragazza che non guarda mai in faccia a nessuno e non spiccica una parola. Lei è conciata peggio di me.
Il mio insegnante di sostegno non è molto ferrato con la tecnologia ed allora gli mostro un po’ di trucchi e di programmi al computer. A volte mi spazientisco perché mi sembra un po’ ottuso su queste cose. Sembra che noi picchiatelli siamo portati per il linguaggio informatico, è una nostra dote insita (insito: agg. radicato profondamente). Sta’ a vedere che devo esserne pure contento! (questa è una battuta che fa sempre ridere la mamma).
Mi sono accorto solo adesso di aver iniziato questo quaderno da lato sbagliato perciò il titolo sulla copertina è sotto sopra e si legge “OIRAID”: sono questi inconvenienti che fanno di me un tipo “strano”.
Il mio problema è che non capisco appieno le cose ed ogni pensiero o azione non so se sia giusta o sbagliata, devo sempre chiedere prima di poter fare o pensare.
Se non c’è la mamma a suggerirmi, guardo la reazione della gente e mi regolo di conseguenza.
Mi ricordo (io ricordo tutto) una volta, che parapiglia!, che mi guardavano inorriditi e mi additavano scandalizzati. Allora saltò fuori che non si deve fare la pipì sulle vetrine dei negozi. Adesso lo so bene, questa è una cosa che ho imparato da piccolo. Adesso so che la maggior parte delle cosa non si può fare perché è disdicevole (disdicevole: agg. Sconveniente).
La cosa più importante al mondo è l’aria che respiriamo. Se da neonato il cordone ombelicale ti strozza e impedisce all’aria di fluire al cervello puoi morire o essere handicappato per tutta la vita.
La mamma dice che sono “speciale”, io lo so che così si intende “stupido”. Certe cose le capisco, non sono mica stupido. Quanto appena scritto dicasi “paradosso” (paradosso: sm. Idea contraria all’opinione comune e apparentemente illogica).
Dovrei andare in giro con un tesserino con su nome, cognome e indirizzo, attaccato alla maglietta. Dovrei, dico, perché appena girato l’angolo lo stacco e me lo metto in tasca. La mamma ha paura che mi perda. Questa è una possibilità remota: conosco tutte le strade, i viali e le piazze della città e potrei tornare a casa ad occhi chiusi da qualsiasi punto di partenza. La mamma dovrebbe saperle queste cose, così, per una volta, sarebbe orgogliosa di me. Quando avevo quella fissazione di cercare mio padre la città l’ho girata in lungo ed in largo.
Non voglio diffondere i miei dati personali in giro, sono cose riservate. La mamma dice che nessuno ci spia e allora come fa, per esempio, il postino a conoscere il nostro recapito? Quando torno a casa dai miei vagabondaggi, bado bene a che nessuno mi segua fino a casa. Passi per il postino, ma far sapere a tutti dove abitiamo non mi sembra proprio il caso.
Mi piace consultare il vocabolario (ma si può anche dire dizionario) perché è un punto fermo, un approdo sicuro (approdo: sm. Il giungere alla riva. Fig. un luogo dove trovare la pace).
Quando incontro una parola bella, sconosciuta, vetusta (vetusto: agg. Molto vecchio, Antico) vado a consultare il vocabolario per saperne di più. Quando conosco il significato delle parole allora posso ricordarle per sempre: così funzione il mio cervello bislacco (bislacco: agg. Strano, Stravagante, Imprevedibile). Le parole belle sono rare. (“Rara” è una bella parola è anche un bel concetto. Le cose rare sono belle; ma questa è la mia opinione che non è attendibile ed andrebbe verificata).
Alla lettera M ho trovato una parola che mi piace molto: “Magniloquente” (magniloquente: agg. Ampolloso, Retorico). Dovrò inventarmi una frase per poterla usare (ma forse l’ho già fatto).
Sono cadute delle bombe sulla scuola. All’inizio la cosa non mi dispiaceva poi il giornalista della televisione ha detto che ci sono state 33 vittime ed un numero imprecisato tra feriti e dispersi. Lui lo diceva con tono compiaciuto come se fosse stato tutto merito suo, come se fosse stato lui a far centro e noi tutti dovessimo essere felici di questa sua impresa, dei 33 morti e del numero imprecisato di feriti e dispersi. Le bombe fanno DUNN quando colpiscono il bersaglio e un vero colpevole non c’è mai. È una cosa permessa, tutto conforme alla legge. Questo mi sconcerta.
Quando oggi sono andato a scuola (pensavo proprio di non doverci andare) non c’erano tracce di macerie e di morti: i miei compagni di classe c’erano tutti, anche Miriam, la bambina che non parla e non guarda. Forse si è trattato di una notizia falsa, capita spesso come ho già potuto constatare, forse le bombe non cadono da nessuna parte. Mi piace pensare che sia così, per un po’ mi passa la paura ma temo che la realtà sia diversa da quello che io possa sperare.
Quand’ero più piccolo, la mamma mi portava al parco giochi. Poi, da un certo punto non siamo più andati, ma a me va bene così, ormai sono grande per certe cose. Là c’erano frotte di altri bambini, io cercavo di aggregarmi: correvo come loro, come loro salivo sulla corda e scendevo a testa in giù dallo scivolo anche se mi faceva paura. Poi, ad un certo punto, loro mi dicevano sempre, dico sempre, la solita frase: “vattene, tu non puoi giocare con noi!”.
Io correvo via, a zig-zag, facendo finta che stessi ancora giocando affinché la mamma non si accorgesse. Aprivo le braccia e volavo come un F15 sopra una città da bombardare. Poi arrivavo all’altalena e sbirciavo verso la mamma; lei leggeva un libro, seduta sulla panchina, bellissima sotto il sole. Poi si soffiava il naso, poi sentiva il mio sguardo e alzava la testa, poi sorrideva, poi mi salutava con la mano ed io mi sentivo felice, nonostante tutto. I suoi occhi luccicavano come stelle.
Cose assolutamente da non fare: prendere le cose senza permesso; maltrattare i gattini (non sono mica peluche!); essere troppo affettuoso; essere poco affettuoso (c’è una via di mezzo); non dire assolutamente (proibitissimo) parolacce; saltare nelle pozzanghere che la pioggia ha lasciato sui marciapiedi; accarezzare tutti i cani che si incontrano (si deve chiedere il permesso ai padroni: “Scusi posso accarezzare il suo cane? Non morde, vero?” – “No, non morde, anzi adora i bambini”. Poi invece ringhiano e quelli ti guardano male, come se fosse colpa tua che i loro cani da mansueti che erano sono diventati aggressivi); mettersi le dita nel naso (non sono invisibile); sputare in faccia (anche se loro si sono comportati in modo odioso); alzare le mani (se loro sono bestie non è un buon motivo perché lo sia anch’io)
So benissimo cosa non si può fare ma non ne capisco il motivo. I grandi e i bambini normali invece sembrano saperlo ma se chiedi ti dicono “non si può e basta!” che non è una spiegazione esaustiva.
Spesso faccio un sogno in cui ci sono tantissime bolle di sapone che scendono dal cielo volteggiando, ognuna con il suo arcobaleno dentro. Sembrerebbe un bel sogno ma io ogni volta mi sveglio terrorizzato, nel petto il cuore che galoppa impazzito, perché so che quelle belle bolle di sapone non si devono toccare, appena arriveranno a terra faranno DUNN! Sono le bombe della guerra. Allora mi alzo col respiro affannato e giro per la casa a controllare che tutto sia in ordine, ogni cosa assolutamente al suo posto.  Socchiudo la porta della camera di mamma, lei dorme beata, senza sospettare nulla. Vado in cucina, ci sono i piatti nel lavello e una goccia cade dal rubinetto a intervallo regolare, tic, tic. Lascio fare perché i rumori fanno compagnia. Pian piano il cuore si calma e smette di saltellare come un coniglio. Allora vado alla finestra di camera mia ed aspetto che il sonno ritorni. Giù in cortile, nei bidoni della spazzatura, i gatti cercano la cena; c’è anche quella gatta bianca e nera che fece i gattini nella nostra cantina. Per la strada non passano macchine. Un signore passeggia tutto solo in piena notte; si ferma sotto il lampione gesticolando come se stesse spiegando a qualcuno una questione di estrema importanza, poi si accende una sigaretta e se ne va. Il suo amico invisibile forse lo segue. Lungo il fianco della collina, lontano, passa un treno che sembra un giocattolo. Vedo le luci sfrecciare tra gli alberi e, a pochi metri dalla galleria, manda un fischio come un grido di guerra per infondersi coraggio prima di affrontare tutto quel buio. Il cielo è stellato e non ci sono aerei, per questa notte non ci bombarderanno, penso. Fischia ancora il treno e nella notte stellata ne sento distintamente lo sgomento.

Arona, marzo 2012

Teodoro Di Leva
Via IV novembre, 5
28041 Arona (NO)
tel.: 0322 45564
E-mail: teodoro.di.leva@tiscali.it


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